martedì 20 ottobre 2009

sarditaliano/3

E poi sono sardo. Per tanti versanti.

Ho visto molti posti straordinari. Ma in nessun luogo il cielo, il mare e la terra si incontrano come a Cagliari, la mia città.

Ho visto molti posti straordinari. Ma nessun luogo mi scuote come l’interno della mia isola. È talmente selvaggio che viene voglia di stringersi al suolo e addormentarsi per sempre, finalmente uniti alla terra.

Ho sempre avuto fortissimo il senso della mia insularità, geografica ed etnica. Qui prendi la macchina o il treno e arrivi a Capo Nord. Lì prendi la macchina o il treno e arrivi al mare. Il mare ci chiude da ogni lato e servono la nave o l’aereo per giungere in continente. Non ho mai vissuto l’insularità come un limite o un impoverimento, ma come una grazia del destino. Non mi reclude, perché posso (faticosamente) varcarne i confini quando voglio. E mi protegge da chi non conosco. Sull’isola so dove sono e soprattutto so con chi sono. Qui ti giri e trovi accanto a te un volto e un animo che non puoi classificare, non sapendo da quale regione o lontano paese vengano. Lì ti giri e trovi accanto a te un sardo. Sardo tra i sardi. L’isola mi aiuta a conoscere e riconoscere la mia gente. È il mio rifugio da questo luogo troppo aperto.

Sono capace di pronunciare e pensare qualche parola in sardo. Le poche che ho assimilato dall’ambiente della mia infanzia. Ogni volta che pronuncio o penso una di queste parole mi si apre un orizzonte di senso nuovo e diverso rispetto a quello praticato con la lingua italiana. E sono più libero.

Sono sardo perché mio padre mi ha regalato l’edizione originale de La lingua sarda di Wagner, stampata a Berna nel 1951, pescandola tra le centinaia di libri di cose sarde della sua biblioteca. Libri che ho sfogliato moltissime volte quando ancora vivevo con la mia famiglia. E che terrò io quando lui non ci sarà più.

Chi dice che l’Europa ha radici cristiane è ignorante o in cattiva fede. L’Europa ha radici pagane. Io, che sono sardo, lo so bene. Ogni volta che torno a Sa dommu e s’Orku di Siddi respiro una solennità e una tensione spirituali ineguagliabili. Paganesimo incardinato nel rapporto con la natura: la terra, la pietra, il legno. I miei avi conoscevano l’anima del mondo. E io ne percepisco ancora la lontana eco.

Col tempo, ho lentamente scoperto che porto sulle spalle una storia di popolo. E non posso non maledire chi non me l’ha insegnata quand’era il momento. Sono stato derubato della vita passata della mia gente. Nessuno mi ha mai raccontato della civiltà nuragica, delle dominazioni straniere, del periodo giudicale. Nessuno, se non per accenni frammentari e comunque fuori dalla sede istituzionale in cui questo racconto andava svolto: la scuola. Perché è la scuola - lo sappiamo per esperienza diretta - a formare la coscienza nazionale di un individuo. Ho dovuto imparare tutto ciò da solo.

Di recente a Cagliari mi sono trovato a cena con dei vecchi compagni di classe. A tavola eravamo in quindici: e su quindici, io ero l’unico libero professionista. Tutti gli altri erano e sono dipendenti pubblici o privati. D’alto livello, ma dipendenti. Mi arrabbio molto per la mancanza tra i miei conterranei di un maggiore dinamismo economico e sociale. E sono contento di arrabbiarmi: sono sardo e la sorte dell’isola non mi è indifferente. Posso e voglio fare tanto perché cambi la mentalità dominante: acquiescente, indolente, chiusa se non ottusa. Il mio sogno è tornare in Sardegna e lavorare con i sardi alla maniera dei kibbutzim che hanno creato Israele. Trasformando terre che tutti dicono avare e povere in un giardino dell’Eden.

Dunque sono e mi sento sardo.
E vivo da sardo, con la testa e con il cuore...

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