domenica 28 marzo 2010

Alcuni motivi di pregio di Mad Men

Mad Men è una serie televisiva americana, trasmessa in Italia da Cult, canale del bouquet Sky. Racconta le vicende dalla Sterling Cooper, immaginaria agenzia pubblicitaria che ha sede in Madison Avenue, a New York, e degli uomini e delle donne che vi lavorano. Ed è ambientata nel passato. La prima stagione narra avvenimenti svoltisi nel 1960, alle soglie dell’elezione di John Kennedy alla presidenza USA. La seconda torna sul 1962 e ha il suo acme nella crisi di Cuba. La terza è imperniata sul 1963 e culmina con l’assassinio di JFK a Dallas. La quarta stagione andrà in onda negli Stati Uniti a partire da luglio e arriverà nel nostro Paese probabilmente sotto Natale. La serie ha già vinto per due volte il premio assegnato dal Sindacato americano degli sceneggiatori: nel suo campo, un riconoscimento che vale ben più di un Oscar. E ora voglio indicare alcuni degli elementi che rendono Mad Men una serie speciale.

- Il lavoro sulle parole, eseguito per sottrazione. Non c’è nel testo una parola in più e inutile. Ciò fa sì che i dialoghi pesino come pietre e che tutte le battute siano indispensabili alla costruzione della storia e del carattere dei personaggi, imponendosi inesorabilmente all’attenzione dello spettatore.

- In stretta connessione, le capacità attoriali del cast. Molte battute esprimono pienamente la propria forza perché accompagnate da sguardi, sospiri, gesti che integrano il detto e riassumono il non detto in maniera perfetta. Tutto ciò vale ancora di più se si ascoltano i dialoghi in lingua originale.

- L’eccezionale cura della ricostruzione d’ambiente e dei suoi dettagli. L’ambiente urbano dei sobborghi newyorchesi, domestico della famiglia borghese americana alla nascita della «società affluente», d’ufficio in una grande azienda di importanza nazionale. Ma ricostruzione anche dell’ambiente sociale e culturale d’epoca. La necessità di essere wasp, il difetto di essere donna, la superstizione del cattolicesimo immigrato, la sigaretta e il superalcolico, l’ostracismo e la vergogna per l’omosessualità, la crescente influenza della televisione, la minorità e anzi la quasi invisibilità dei neri: tutti questi e altri elementi sono presenti, efficaci anche quando appena pennellati.

- Il contrasto tra il nitore e rigore della messa in scena e la forza delle passioni che muovono i personaggi. L’ambiente è sempre pulito, illuminato, animato da colori squillanti. E i protagonisti non gridano, non fanno piazzate, non si muovono in modo inconsulto, non hanno i vestiti in disordine. Eppure quando parlano, parlano per ottenere denaro, sesso e potere. Sono istinti e desideri primari, immersi ed espressi in un universo convenzionale e misurato, che non ammette deroghe. Tale contrasto accentua efficacemente ogni effetto drammatico.

- Lo stesso contrasto fa sì i personaggi appaiano sempre in procinto di prendere decisioni fatali. Noi sappiamo che chi recita sta solo accendendo una sigaretta. Ma quella sigaretta può essere l’ultima. Dopo quella sigaretta, si può scegliere di cambiare vita… o di accendersene un’altra!

- La riuscita fusione tra storia personale e storia collettiva. Gli eventi cui accennavo sopra sono presenti in sceneggiatura e citati in modo molto classico: un discorso radiofonico, un telegiornale, un quotidiano. Ma, a differenza di quanto avviene in altre serie, qui gli avvenimenti storici hanno sempre a che vedere con le vicende dei protagonisti, influenzandole in maniera non artificiosa. Ecco perché Mad Men, benché sempre raccolta entro le mura di un ufficio o di una casa, lascia davvero nella memoria il senso della scoperta di un’altra epoca e di un altro mondo.

Queste sono le mie impressioni. Chi vuole verificarle deve solo godere dello spettacolo che va in onda a ogni puntata di Mad Men.

domenica 21 marzo 2010

Una realtà che non fa sognare

Sulla facciata della scuola media frequentata da mio figlio, anni fa un poeta in erba ha scritto due bellissimi versi. Dicevano così: "Nadia non sei un sogno/ma una realtà che fa sognare".
Oggi quella scritta sul muro è stata cancellata, ma ho sempre sperato che la fortunata Nadia, moderna Beatrice, abbia conosciuto il piccolo poeta innamorato.

Ci sono aspetti della vita che meritano poesia, come l'amore, a cominciare dai suoi inizi in una cotta tra adolescenti. Poi ci sono le realtà meno sentimentali: il lavoro, la gestione dei risparmi, le spese condominiali, il mutuo, l'assicurazione dell'auto e il prezzo della benzina fanno parte di questa seconda categoria. Sono cose che centrano poco con la leggerezza e la gratuità dei desideri, delle emozioni, dei sogni, appunto. Sono cose fatte come devono essere, e basta. Non resta che affrontarle adeguandosi alla realtà.

Ora mi chiedo: tra i due estremi del mondo delle emozioni, da una parte, e di quello delle concretezze più dure, dall'altra, dove si colloca il mondo della politica?
Sembra una domanda un po' retorica. Potremmo rispondere subito, senza pensarci: la politica è la gestione del bene comune, fatto di cose concrete sulle quali decidere con conoscenza dei problemi, attenzione ai dati concreti, realismo ed efficacia.
E allora mi domando: cos'è questo gran parlare, oggi, tra i politici, di amore, di affetti e di valori?

In una delle campagne elettorali vinte negli ultimi dieci anni, il centrosinistra, guidato da Prodi, parlava di una politica "per la felicità". Dopo di lui è nato il Partito Democratico e Walter Veltroni ha tentato di guidarlo in nome dei "sogni" e della "bella politica".
Oggi Bersani insiste, più realisticamente, sul problema del lavoro e sui soldi che si potrebbero spendere per aiutare le famiglie e le piccole e medie imprese in difficoltà.
Questa parabola indica una decadenza della politica o un suo progresso?

Sabato 20 marzo si è tenuta a Roma una grande manifestazione del Popolo della Libertà di Berlusconi e dei suoi alleati. A grandi lettere, sul palco, era scritto: "L'amore vince sempre sull'odio e sull'invidia". Ecco, da questa parte siamo già da tempo al "partito dell'amore".
Ma perché sprecare così le parole?

Ho una teoria. Penso che se liberassimo definitivamente la politica dai grandi sentimenti contrapposti smetteremmo di viverla per quello che è diventata: la gara a chi accende di più i suoi tifosi e ammiratori e li spinge di più a disprezzare l'altro dal profondo del cuore.
Se passassimo, invece, a un metodo davvero democratico di confrontarci sulle cose concrete, faremmo tutti qualche progresso, a cominciare dal fatto che l'interesse per la politica crescerebbe molto rapidamente.
Il principio fondamentale di questo metodo è: ascolta l'altro tentando di capire cosa vuole davvero, prima di rispondere con una tua valutazione della sua proposta e, eventualmente, con una controproposta; facendo così, potresti scoprire che siete d'accordo, oppure che non lo siete, ma che entrambi vedete un aspetto del problema davvero importante e che bisogna cercare una mediazione insieme.
Invece i politici si ascoltano solo fino a metà della frase pronunciata dall'avversario e nel frattempo non stanno pensando a quello che l'altro dice, ma a cosa controbattere (possibilmente sovrapponendosi alla sua voce) in modo da sembrare subito migliori di lui.

E così arriviamo al problema: la politica non fa sognare quasi nessuno perché la democrazia si è trasformata semplicemente in una campagna elettorale permanente, basata non sui fatti, sui problemi, sulle proposte e sulle cose da fare, ma sull'attacco all'avversario.
Una situazione nella quale c'è poca poesia, ovviamente.
I poeti, si sa, sono tipi solitari, riflessivi, pacati. Amano il silenzio, la bellezza scoperta parola per parola, un'idea dopo l'altra, una scoperta quotidiana per cui dirsi grati al mondo intero.
Per questo nella storia si è pensato di far fare politica ai filosofi, ma mai ai poeti.

Ma la questione non è mettere poesia e parole sdolcinate in politica per mascherare i giochi di interesse e le contrapposizioni sterili. La questione è che la politica, come ogni cosa importante (il lavoro, i beni, la famiglia, i figli...) deve trovare in se stessa la sua poesia, cioè la bellezza della sua disciplina, del suo metodo corretto ed efficace.
C'è qualcuno che sembra davvero preoccuparsene? Sembra di no. Ed ecco perché ci viene una gran voglia di lasciar soli i politici per inviare loro un messaggio di protesta. Peccato che, da soli, abbiano comunque il potere di costringerci con la forza della legge e dell'autorità.

Per cui dico: va bene, magari questa volta non votiamo o votiamo scheda bianca. Ma poi, per piacere, tra quanti siamo che abbiamo così protestato, troviamoci, vi prego, a leggere insieme qualche bella poesia.
Insegnano ad ascoltare un uomo che parla: male non ci farà.

Venerdì 19 marzo ho letto e spiegato sei poesie (di Montale, Caproni, Luzi e Rebora) a un pubblico di circa trecento persone a Aicurzio, in Brianza. Un'ora e mezza di buon ascolto.
Non abbiamo passato una brutta serata.





domenica 14 marzo 2010

Lo Zimbabwe e il dovere della scheda bianca

Secondo le cronache, è andata così. Innocenzi, commissario dell’Agcom, l’agenzia che garantisce la libertà e l’equilibrio dell’informazione sui media, telefona a Mauro Masi, direttore generale della Rai. E gli riferisce delle pressioni subite da Berlusconi a proposito di Annozero: il premier vuole che Innocenzi si dia da fare per eliminare dal palinsesto televisivo la trasmissione di Santoro. Masi ascolta e commenta: «Neanche in Zimbabwe». È vero. Ciò che dicono questi personaggi, nominati ai loro uffici dalla destra e fedeli alla destra, è vero: neanche in Zimbabwe, ormai, l’opinione pubblica trova ammissibile un intervento tanto smaccato a sfacciato del potere esecutivo sull’indipendenza dei mezzi di informazione. È questo è solo l’ultimo degli episodi che rendono chiaro in quanta scarsa considerazione Berlusconi tenga le regole democratiche che ha giurato solennemente di servire.

Anche di questo ci hanno informato le cronache. Il giorno successivo all’«eliminazione» della lista PDL dalla provincia di Roma e di quella targata Formigoni dalla Lombardia, Bersani e il suo partito ammettono che al problema va cercata una soluzione politica: la maggiore forza del Paese non può restare fuori dalla competizione elettorale in due aree tanto importanti. Bersani e il suo partito però non tendono la mano e non propongono alcuna soluzione politica concreta. Lo rileva anche Napolitano, nella lettera con cui risponde alla domanda dei cittadini: perché ha firmato il decreto «salvaliste» emanato dal Consiglio dei Ministri? Perché non poteva fare diversamente, dice. Perché i partiti di maggioranza e opposizione non avevano alcuna intenzione di mettersi d’accordo. Nonostante le proclamate intenzioni. Dopodiché, Bersani e il suo partito si fanno tirare la volata da Di Pietro, che certo parla chiaro, ma parla male. Parla male a sinistra come parla male Bossi a destra. Con toni ed espressioni inaccettabili. Ma questo è solo l’ultimo episodio dei tanti che dimostrano l’insipienza del PD e la sua incapacità di ragionare come grande partito di aspirazioni governative.

Ho acquisito il diritto di voto quasi trent’anni fa e l’ho sempre esercitato. Tranne un paio di volte, occasioni in cui mi trovavo molto lontano dalla mia residenza e dal mio seggio. Ora però mi sono stufato. Votare per questi partiti non significa più compiere un atto ragionato e affidarsi a chi ci sembri dare le migliori garanzie di buon governo. Votare per questi partiti significa oggi compiere un atto di fede cieca. In persone e formazioni politiche che hanno già abbondantemente dimostrato di non possedere la levatura intellettuale e morale necessaria a guidare l’Italia. Per tali motivi, alla fine di marzo voterò scheda bianca. Non mi asterrò, perché non voglio lanciare un messaggio di disinteresse per la politica e le sorti del Paese. Voterò scheda bianca, lanciando ai partiti nell’urna un avvertimento preciso: io vi seguo, vi guardo, vi controllo e sono pronto a tornare a votarvi, ma solo se metterete argine al degrado e alla corruzione correnti dell’ethos pubblico. Senza questa necessaria rinascita, perderete il mio appoggio. E cercherò altre strade per recuperare il senso di appartenenza alla società politica che ora ho completamente smarrito. Strade su cui non avrà alcuna importanza l’incontro con PD, PDL, UDC, IdV o Lega.

domenica 7 marzo 2010

Un messaggio dal nostro passato, tra lacrime e smarrimento

Circa un mese fa mia suocera mi ha comunicato una notizia che ha toccato il cuore dei saronnesi doc. Il Comune aveva deciso di organizzare una solenne cerimonia per la consegna alla famiglia della targhetta di riconoscimento del caporale Luigi Maruti, un giovane appartenente a una delle più antiche famiglie della città partito nell'autunno del 1942 per combattere in Russia. Egli risultava ufficialmente disperso dal gennaio 1943, durante la rovinosa ritirata del nostro esercito nel gelo e sotto il fuoco dei sovietici. Grazie al ritrovamento della targhetta di riconoscimento del nostro concittadino, oggi sappiamo che egli fu fatto prigioniero, fu internato in un campo di prigionia, morì prima della fine della guerra e fu seppellito in una fossa comune.

Ho voluto partecipare alla cerimonia perché le vicende delle due Guerre mondiali del Novecento mi hanno sempre turbato e commosso profondamente. Sono nato nel 1964 e ho vissuto tutti gli anni della mia vita nella società del benessere, in pace e in uno Stato associato a solide alleanze internazionali. Quei conflitti, che hanno fatto soffrire i miei nonni, potrebbero essere per me solo un ricordo dei banchi di scuola. E invece no. Tutte le volte che ho letto dei libri, visto documentari, visitato cimiteri militari ho sentito che quelle migliaia di giovani mi rivolgevano un appello e tentavano di coinvolgermi nel loro travaglio. Non temo di sembrare esagerato: io sento che un grido, uscito dalle loro bocche, ci raggiunge ancora, echeggia ancora intorno a noi, oppure attende, dentro di noi, di risvegliarsi non appena si avvicina il pericolo che qualcosa di simile a quelle guerre insensate ci possa di nuovo travolgere. Io credo, per esempio, che quei conflitti siano in parte all'origine del senso di sospetto degli italiani nei confronti delle istituzioni. Credo anche che abbiano instillato nelle coscienze dei padri della mia generazione un bisogno di rivalsa, più che di pace: il senso di una specie di diritto ad essere risarciti dalla storia.

Comunque sono andato alla cerimonia, armato di un pacchetto nuovo di fazzoletti di carta perché ogni sofferenza umana mi commuove e il pianto che non si nasconde, il pianto che è tentativo di smuovere dal profondo la morsa dell'angoscia è il più antico modo di manifestare la propria protesta contro l'assurdo.
La cerimonia si è tenuta la mattina del 5 marzo, nella sala del consiglio comunale di Saronno. Presenti le autorità civili, militari, religiose. Presenti - con bandiere, gonfaloni, berretti, divise, medaglie e gagliardetti - i rappresentanti delle Associazioni combattenti e reduci di tutte le armi e i rappresentanti della Associazione Nazionale Partigiani. Presenti alcune classi di studenti dei licei della città. Presenti numerosi semplici cittadini come me.

Tutto è cominciato con il canto dell'Inno nazionale. Sono stati letti ampi brani della corrispondenza con i familiari del caporale Maruti, testimonianze, ricostruzioni delle vicende in cui fu coinvolto il suo reparto di appartenenza. Poi la tromba ha suonato il silenzio e la targhetta che prova dopo tutti questi anni il decesso del loro congiunto è stata consegnata alla sorella del defunto e ai nipoti. Infine è stato proiettato un lungo filmato con testimonianze originali sulla guerra di Russia.
Tutto ben fatto, con serietà e rispetto.
Ma le parole "patria" - addirittura ho sentito "difesa della patria", la guerra in Russia! - , "onore", "alpini invitti", "spirito di sacrificio" sono risuonate insieme a "pace" e "rifiuto della guerra" e gli adolescenti presenti, per quanto tutti attenti e rispettosi (e non è poca cosa), non sembravano capire.
Comunque, il grido contro l'assurdo, che si levò anche in quel gelido inverno russo del '42-'43, ci ha raggiunto tutti di nuovo, senza che nessuno tra i presenti avesse un'idea chiara su come farlo per sempre tacere in un vero riposo eterno.

Il caporale Maruti era un giovane intelligente, scriveva bene in quell'italiano un po' solenne e ottocentesco che aveva imparato a scuola. Ben quattro ufficiali lo volevano con sé, poco prima che scoppiasse la tragedia della ritirata, per la sua serietà, precisione, dedizione al bene del reparto (fu, tra l'altro, responsabile del magazzino dei medicinali di tutto il reggimento).

Il caporale Maruti visse nell'epoca in cui lo Stato poteva imporre ai cittadini la divisa e l'obbedienza in nome degli interessi di chi dello Stato si era impadronito con la forza e l'inganno.
Oggi questo non è e non sarà più possibile solo se troveremo la risposta al suo grido. Non credo che sia ancora successo, con buona pace delle lacrime (queste di commozione e orgoglio insieme) dei reduci e nostalgici.
Non siamo più soldati come Maruti. Non sappiamo ancora, tuttavia, cosa siamo diventati. La strada della costruzione di una nuova coscienza umana e civile è ancora aperta davanti a noi, come la lunga pista dei ritirati di Russia.
Auguri, camerati.