domenica 10 ottobre 2010

Il meraviglioso mondo del piccolo calcio

Non ho mai parlato della mia ormai lunga esperienza come dirigente accompagnatore della squadra di calcio dove gioca mio figlio, oggi dodici anni, che ha cominciato a tirare calci al pallone a otto.
Il titolo "dirigente" non deve trarre in inganno. Si tratta di uno o più papà che fanno volontariato: accompagnano i giocatori in macchina nelle trasferte, concordano con le altre squadre orari e questioni tecniche spicciole, danno avvisi ai genitori, portano in panchina le borracce con l'indispensabile "acqua miracolosa" che spruzzano generosamente su botte e storte e la borsa medica. Ah, sì: fanno anche i guardalinee, qualche volta gli arbitri, scrivono la lista dei giocatori da consegnare all'altra squadra, scrivono il referto della partita da inviare poi in Federazione, consegnano e ritirano le maglie e poi le portano in lavanderia, si assicurano che i ragazzi puliscano le scarpe infangate prima di entrare negli spogliatoi, vigilano che non si facciano male facendo la doccia, ascoltano le richieste delle mamme (comprese chiamate al cellulare dalla tribuna mentre sono in panchina: "dì al mio piccolo di mettere la giacca, è sudato!").

Si tratta di un'attività tutto sommato piuttosto divertente. Tutto il calcio dei ragazzi è di per sé divertente e stare loro vicini mentre fanno una cosa che gli piace così tanto ti rilassa anche come genitore.
A guastare la festa, o almeno a provarci piuttosto spesso, sono una parte dei genitori. Specialmente quelli che sono convinti - a volte, ma non sempre, con qualche motivo -, che il loro figlio sia un campione.
Anche in questo caso quasi sempre il soggetto in questione è solo un ragazzo che si diverte insieme ai suoi compagni. Ma si sa: ognuno ha diritto ha coltivare le proprie ambizioni e a cercare di raggiungere la felicità. E' quando la felicità viene fatta coincidere con il sogno di diventare (e guadagnare) come Pirlo, Pato, Ronaldinho o Nesta (si capisce che tengo al Milan?), che cominciano i guai.

Insomma, vi risparmio gli esempi (immaginabili) di offese personali, di alzate d'orgoglio, di mugugni e tradimenti della squadra (con rammarico del ragazzo stesso) provocati dall'attivismo dei genitori. Dico solo la morale che ne traggo: sembra che siamo capaci di trasmettere molte cose, ai nostri ragazzi, ma fra tutte la più difficile da insegnare è la gratuità.
E la semplice, magari sufficiente, bellezza di stare insieme dando calci al pallone, ottenendo il massimo da ciascuno e sfogando le migliori energie nel dare se stessi alla squadra.

Sarà che mi lamento perché dopo cinque anni sono arrivato, con mio figlio, al livello in cui per portar via un calciatore dalla sua squadra cominciano a girare (piccole) offerte di soldi e favori. Ma se non è nello sport che valgono più le soddisfazioni morali che il resto, dove sarà possibile parlarne ai ragazzi con sincerità?

E infine: guarda caso, e lo dico dopo lunga osservazione, sono proprio le squadre che mirano ad attirare i migliori e si vantano di praticare il calcio più competitivo, quelle in cui ti capita di vedere, mentre giocano, che hanno ragazzi che lo fanno con cattiveria e sempre meno gioia.
Gioia e gratuità, infatti, camminano insieme.


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